Ricerca e sviluppo non giustificano il prezzo elevato dei nuovi farmaci

Un gruppo di ricercatori londinesi ritorna su un tema molto dibattuto, il prezzo ingiustificato dei farmaci.[1] Questo è passato, negli USA, da una media di 1400$ per anno nel 2008 a 150.000$ nel 2021. Esistono poi farmaci con prezzi stratosferici, come Zolgensma per l’atrofia muscolare spinale, in vendita a 2 milioni di dollari a singola dose, o farmaci più recenti per la terapia genica dell’emofilia B che arrivano a 3,5 milioni di dollari a dose. Le aziende del farmaco si sono sempre trincerate dietro la giustificazione dei costi elevati di ricerca e sviluppo (R&D).

Un dirigente della Johnson&Johnson ribatte che è finita l’era dei farmaci per malattie ‘semplici’, oggi si ricercano prodotti per patologie più complesse che richiedono investimenti elevati e per giunta associati a un consistente rischio di fallimento. Se il prodotto non funziona, gli investitori saltano immediatamente su un altro carro, dove i profitti sono più promettenti. Gli autori dell’articolo sostengono invece non esserci alcun rapporto diretto fra profitti e R&D, anche perché molta ricerca è sostenuta da fondi pubblici, come è avvenuto per più di un quarto dei farmaci approvati dalla FDA dal 2008 al 2017 (abbiamo già rilevato nella Lettera 74 del settembre 2020 come il Remdesivir, antivirale per la Covid-19, totalmente finanziato con le tasse, sia stato nuovamente e profumatamente pagato dai cittadini statunitensi). Anche una recente ricerca apparsa su JAMA esclude una relazione fra R&D e aumento di prezzo di 60 nuovi farmaci approvati dalla FDA dal 2009 al 2018.[2] Se l’industria continua ad avallare la giustificazione dei costi elevati della ricerca deve fornire argomenti plausibili.

La maggior parte delle spese non sono per R&D. Dal 1999 al 2018 Big Pharma (le 15 maggiori aziende) ha avuto profitti per 7.7 trilioni di dollari, mentre ha speso 2.2 trilioni per assistenza alle vendite, attività amministrative (compreso il marketing) e altro non direttamente connesso alla produzione; le spese per R&D arrivavano solamente 1.4 trilioni. Ma non sempre è chiaro cosa comprenda la voce R&D, nella quale spesso rientrano anche i seeding trials, studi post approvazione impostati come se dovessero rispondere a quesiti specifici, in realtà condotti per obiettivi di marketing. Da quanto sopra, appare evidente che Big Pharma spende più per vendere che per ricercare nuovi prodotti. In più, nel periodo 1999-2018, è stato speso più per il cosiddetto buyback che per R&D. Acquistare le proprie azioni (buyback) contribuisce a tenerne alto il valore e a compensare il lavoro degli alti dirigenti, legando le loro entrate ai profitti dell’azienda. Il comitato investigativo della camera (US Committee on Oversight) ha evidenziato come dal 2016 al 2020 le prime 14 compagnie farmaceutiche abbiano speso 577 miliardi di dollari in buybacks e dividendi, 56 miliardi in più che per R&D, mentre i compensi dei dirigenti erano aumentati del 14%. Anche il New Economic Thinking, un think tank di New York senza scopo di lucro, è giunto agli stessi dati per il periodo 2006-2015, concludendo che le 18 maggiori aziende del farmaco lavorano per un rientro a breve termine di quanto investito, piuttosto che per una prospettiva futura di innovazione. Quello che importa veramente è il valore delle azioni e il loro dividendo annuale (rileggere Finanzializzazione di Big Pharma, Lettera 84 di settembre 2020). Il fenomeno del buyback indica che le compagnie hanno più cash che opportunità di investimento, preferendo rimanere improduttive in alcune fasi del mercato. Sebbene le spese amministrative e per vendite abbiano avuto un modesta flessione, dal 35% al 27%, quelle per R&D sono un po’ risalite (da 16% a 21%) nel periodo 1999/2017.

Sappiamo anche che le grandi aziende investono in piccole compagnie emergenti che producono farmaci innovativi, piuttosto che in ricerca, riservando il grosso del capitale quando esistono farmaci promettenti in fase finale di sviluppo (è notizia di questi giorni l’acquisto di Seagen, pioniera di una nuova classe di farmaci antineoplastici anticorpo coniugati, da parte di Pfizer, per 43 miliardi di dollari; ndr). Non è facile trovare un consenso sulla definizione di farmaco innovativo; nell’articolo si citano 14 ricerche sulla percentuale di prodotti realmente nuovi (1991-2022) rispetto al totale. Light e Lexchin ritengono non vi sia un rapporto fra il numero di farmaci approvati e l’innovazione terapeutica conseguente. Negli anni ’70 e ’80 circa 1 farmaco su 6 (16%) approvato negli USA aveva offerto un guadagno terapeutico secondo la stessa FDA. Nello stesso ventennio, in un altro studio, risultava innovativo un farmaco su 10. Dalla letteratura francese e tedesca più recente quasi nessun farmaco nei primi 10 anni di questo millennio ha aggiunto un qualche valore terapeutico all’esistente. Uno studio belga del 2022 definisce incerto il vantaggio di molti costosissimi farmaci oncologici sulla sopravvivenza e sulla qualità di vita (vedi Lettera 89 di febbraio 2021).

Una nota positiva, invece, nei farmaci sviluppati dal 1997al 2016, è quella dei meccanismi d’azione innovativi. Ma siamo passati dai blockbuster dedicati a patologie croniche e creati per avere un elevato volume di vendite a farmaci di nicchia (‘nichebuster’) per patologie rare e/o indicazioni molto specifiche, in modo da ottenere un elevato prezzo di vendita. Dal 2001 al 2005 i farmaci per malattie rare sono cresciuti del 25% rispetto a tutti quelli approvati, contro il 52% negli anni 2016-20. Nel 2021 oltre la metà dei farmaci approvati erano orphan drugs. Questo sia per poter imporre prezzi elevati, sia per ottenere benefici e incentivi dedicati a questa particolare categoria (dal 1983 negli USA, dal 2000 anche in UE; ndr) e non ultimo per la disponibilità dei pazienti a pagare di più. Purtroppo rimangono scoperti da questo modello di business le patologie trascurate, l’antibiotico resistenza e le malattie infettive emergenti. In molti mercati le autorità competenti giudicano un farmaco in base al profilo di efficacia/sicurezza, non sul valore clinico aggiunto, e i brevetti guardano più alle novità del prodotto che al valore terapeutico aggiunto.

Considerando quanto detto, è pensabile che le aziende farmaceutiche possano fare molto di più nel campo dell’innovazione terapeutica, ma che non lo faranno mai senza un intervento delle agenzie regolatorie. Queste ultime dovrebbero

– rendere più difficile un brevetto senza innovazione terapeutica;

– richiedere priorità per farmaci di reale interesse per la salute;

– migliorare l’allocazione dei fondi pubblici con possibilità di comproprietà di farmaci di pubblica utilità a prezzo ridotto;

– invitare le aziende farmaceutiche a condurre trials randomizzati comparativi per conoscere il reale valore terapeutico dei farmaci;

– scoraggiare l’approvazione di prodotti me-too e premiare aziende che producono farmaci innovativi.

Per le aree in cui la remunerazione è scarsa, come gli antibiotici per le infezioni da batteri resistenti, valgono gli incentivi cosiddetti push and pull: aiuti alla ricerca per ridurre i costi di R&D (push) e premi di risultato (pull) che garantiscano un ritorno finanziario. In ogni caso, gli incentivi vanno orientati a conseguire innovazione a prezzi sostenibili.

La trasparenza in questo campo, prezzi, brevetti, costi di R&D e dati dei trial clinici, è raccomandata dall’Assemblea Mondiale della Salute in una risoluzione del 2019. Bisogna ridisegnare tutto il processo economico, fiscale e industriale delle politiche che governano il settore farmaceutico. Gli obiettivi di salute ottenuti con l’innovazione sono un bene comune. Nel 2022, l’Inflation Reduction Act del presidente Biden ha permesso fra l’altro a Medicare di negoziare il prezzo di alcuni farmaci e si stima che possa portare a un risparmio di 237 miliardi di dollari in dieci anni. Il provvedimento ha anche calmierato il prezzo dell’insulina e di alcuni vaccini, ha considerato incentivi per farmaci che aumentano l’aspettativa di vita al di sotto di una certa età, e sono previste multe per le aziende che non si assoggettano a questo tipi di contrattazione che durerà fino al 2026/2028.[3] Vi è estrema necessità di farmaci che aggiungano valore clinico a quanto già sul mercato e i governi, nonché le agenzie regolatorie, devono pensare a incentivi per l’innovazione terapeutica per raggiungere obiettivi di salute pubblica.

A cura di Giovanni Peronato

1. Angelis A et al. High drug prices are not justified by industry’s spending on research and development. BMJ 2023;380:e071710 http://dx.doi.org/10.1136/bmj-2022-071710

2. https://jamanetwork.com/journals/jamanetworkopen/fullarticle/2796669

3. https://www.kff.org/medicare/issue-brief/explaining-the-prescription-drug-provisions-in-the-inflation-reduction-act/#bullet02

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