Dieci anni di Choosing Wisely: due articoli interessanti

Un cammino di 1.000 miglia inizia con il primo passo

Stati Uniti, Aprile 2012. La fondazione ABIM lancia CW: un’iniziativa che si propone di promuovere il dialogo tra medici e pazienti allo scopo di ridurre l’uso di prestazioni sanitarie di dubbia efficacia. Per l’occasione, nove associazioni professionali pubblicano le prime liste top five: un elenco di 45 procedure sanitarie di comune riscontro nella pratica clinica ma che nella maggior parte dei casi non portano alcun beneficio al paziente e possono essere potenzialmente dannose. [1].

Allora SM era nata da poco e quel progetto sembrava collimare perfettamente con uno dei suoi principi fondativi: la sobrietà. Prendiamo contatto con Daniel Wolfson (vicepresidente esecutivo della fondazione ABIM), gli esprimiamo il nostro interesse per il progetto e pochi mesi dopo lo lanciamo in Italia con il nome: “Fare di più non significa fare meglio”. Da lì a poco si attivano altri paesi e nel 2014, su iniziativa del Canada, i rappresentanti di 12 Nazioni, tra i quali Sandra Vernero per SM, si riuniscono per la prima volta ad Amsterdam. Lì si costituisce CW International, il cui coordinamento è affidato a Wendy Levinson (Canada). Il progetto italiano prende il nome di CW Italy. [2]

Oggi, a distanza di 10 anni, CW è presente in 25 paesi e ne parlano i media e le riviste scientifiche internazionali più accreditate. Le raccomandazioni sono spesso oggetto di ricerca e sono state inserite nei maggiori database elettronici per il supporto decisionale del medico. Centinaia di associazioni professionali in diversi paesi del mondo hanno definito e diffuso le rispettive top five. In Italia più di 50 associazioni professionali hanno aderito al progetto, definendo 280 raccomandazioni facilmente consultabili mediante una specifica App.

Luci e ombre di un progetto in continua evoluzione

Fin dalla sua presentazione CW è stato oggetto di molta attenzione da parte della letteratura scientifica internazionale e recentemente due interessanti articoli hanno ripreso alcuni dei temi già oggetto di un nutrito confronto. Nel primo articolo, apparso sul New England Journal of Medicine, Elizabeth Rourke ritorna su alcuni rilievi critici relativi al disegno e alla gestione del progetto. [3] Nell’altro articolo, pubblicato su Milbank Quarterly, Betsy Cliff riporta invece i risultati di una revisione sistematica della letteratura relativa agli interventi finalizzati a ridurre le prestazioni a basso valore clinico individuate da CW. [4] Vediamo di cosa si tratta.

Innanzitutto è necessario premettere che entrambi gli articoli si riferiscono agli Stati Uniti e pertanto rilievi e giudizi non sono completamente generalizzabili a iniziative simili intraprese in altri paesi (come Canada, Italia e Regno Unito) con sistemi sanitari e contesti economici del tutto diversi. Nel primo articolo, Rourke ci ricorda che per modificare i comportamenti prescrittivi dei medici non basta definire e diffondere una lista di prestazioni di basso valore clinico. Questo è vero, ma è evidente che se vogliamo modificare qualcosa dobbiamo prima di tutto dichiarare, in modo esplicito, che cosa vorremmo cambiare o, come in questo caso, che cosa non dovremmo fare. In altre parole, definire e diffondere le top five non è sufficiente per ridurre l’uso eccessivo di prestazioni, ma è comunque un passo necessario. Le top five, infatti, costituiscono un autorevole punto di riferimento per avviare e valutare progetti di miglioramento della qualità delle cure.

Uno dei temi spesso oggetto di discussione riguarda gli obiettivi di CW. In particolare se esso sia da considerare uno strumento di contenimento dei costi o addirittura se sia un nuovo espediente per introdurre qualche forma di controllo o di razionamento dei servizi sanitari. Nulla di tutto ciò. L’obiettivo dichiarato di CW è migliorare la comunicazione tra medici e pazienti relativamente ad alcune prestazioni di dubbia efficacia. Proprio per questo e per evitare ogni equivoco, la campagna volutamente non prende in considerazione i costi delle procedure oggetto delle raccomandazioni. Va detto, comunque, che l’aspetto economico non è del tutto trascurabile, dato che le risorse impiegate per erogare prestazioni inutili non sono più disponibili per garantire i servizi essenziali. Per lo stesso motivo CW esclude in modo esplicito che le raccomandazioni siano utilizzabili dalle compagnie assicurative per definire le polizze, ma questo vale soprattutto per gli Stati Uniti.

Un’altra delle questioni molto dibattute riguarda la gestione del progetto e soprattutto le modalità d’individuazione delle procedure. Su questo punto, come ben ci ricorda Rourke, CW è poco direttivo, lasciando in capo alle associazioni professionali la piena responsabilità delle scelte. Le raccomandazioni devono essere definite sulla base delle migliori conoscenze disponibili (riportate in una breve bibliografia), ma CW non richiede di indicare in modo esplicito i criteri attraverso i quali tali prove scientifiche sono valutate. Questo può certamente costituire un limite dal punto di vista metodologico. Molti, infatti, sostengono che solo un piccolo numero di raccomandazioni è basato su dati derivati da studi clinici randomizzati. Questo, però, è un problema generale che riguarda l’intero ambito della medicina. Ricordo in proposito che solo l’11% di oltre 3.000 prestazioni che costituiscono la pratica clinica corrente sono di provata efficacia. [5]

Qualcuno fa notare, inoltre, che molte delle procedure selezionate sono poco usate nella pratica clinica e raramente sono scelte tra quelle più remunerative per i medici. Alcune raccomandazioni, poi, generano ricadute economiche negative su medici afferenti a specialità diverse da quella dell’associazione professionale che le propone, come nel caso delle richieste di indagini radiologiche. Questo è vero, ma in linea generale, le scelte delle procedure trascendono le questioni economiche legate alle modalità di pagamento delle prestazioni. Ciò anche perché CW è presente in paesi come l’Italia, il Canada o il Regno Unito, con sistemi sanitari nazionali universali che si avvalgono di sistemi di pagamento centralizzati, molto diversi da quello vigente negli USA.

Rourke, infine, descrive alcuni dei principali fattori che alimentano il perdurare nella pratica clinica di prestazioni ad alto rischio d’inappropriatezza. Tra questi il disagio dei medici, costretti a gestire contemporaneamente l’incertezza insita nella medicina e le sollecitazioni dei pazienti che esigono risposte pronte e sicure per ogni tipo di problema; il timore dei sanitari di essere implicati in contenziosi medico-legali; la tendenza dei medici e dei pazienti a sovrastimare i benefici e a sottostimare i danni attribuiti agli interventi sanitari; il modello culturale prevalente, orientato al consumo, alla crescita senza limiti, alla fede nella tecnologia, all’idea che fare di più sia sempre meglio; la mancanza di tempo da dedicare alla comunicazione, all’ascolto e alla personalizzazione delle cure e soprattutto la pressione dei pazienti che chiedono di eseguire test diagnostici e trattamenti sanitari anche quando il medico non li ritiene necessari.

Tutto ciò ci fa capire che siamo di fronte a un problema molto complesso, dove le variabili in gioco sono tante e interdipendenti. Pare quindi molto improbabile che le cure di scarso valore clinico possano essere completamente estirpate dalla pratica corrente. Tuttavia possiamo certamente fare qualcosa di più e anche a me, come a Rourke, piacerebbe vivere in un mondo dove CW fosse veramente usato come strumento di cambiamento, un mondo dove medici e pazienti fossero davvero nelle condizioni di poter scegliere con saggezza.

L’impatto di CW sulle prestazioni di basso valore clinico

L’uso di prestazioni sanitarie di scarso valore clinico, inappropriate, inutili e perfino dannose è un problema molto ben documentato in medicina. Secondo un recente rapporto dell’OCSE tali prestazioni rappresentano una delle voci più significative degli sprechi in ambito sanitario, pari al 20-30% della spesa complessiva. [6] Benché se ne parli da molto tempo non si può certo dire che sia un fenomeno scomparso dopo l’avvio di CW. Allora? Tutto inutile? È meglio lasciar perdere e dedicarsi a qualcosa di più proficuo? Quali conclusioni possiamo trarre dopo dieci anni dall’avvio di CW? È servito a qualcosa?

A questi interrogativi cerca di rispondere la revisione sistematica della letteratura effettuata da Betsy Cliff: ad oggi la sintesi più completa degli interventi che si richiamano a CW, realizzati tra il 2012 e il 2019.[4] Tale revisione si basa su 131 studi che soddisfano tre requisiti: riferirsi a pazienti degli Stati Uniti; misurare il tasso di utilizzazione di almeno una delle procedure incluse nelle liste top five di CW; aver avviato almeno un intervento per ridurne l’impiego nella pratica clinica.

La maggior parte degli articoli presi in considerazione riguardava progetti di miglioramento della qualità delle cure con un disegno dello studio pre-post, senza gruppo di controllo. La tipologia degli studi non era ottimale, ma ciononostante le conclusioni sembrano abbastanza solide, dato che gli studi che prevedevano un gruppo di controllo (17% del campione) erano di alta qualità e ottenevano risposte sovrapponibili a quelle degli studi senza gruppo di controllo. Le raccomandazioni prendevano in considerazione soprattutto le indagini radiologiche, i test di laboratorio e le procedure sanitarie (per es. cateteri urinari). I progetti, per modificare le modalità prescrittive dei medici, si avvalevano di almeno una delle tipologie d’intervento di seguito descritte ma, più spesso, erano costituiti da interventi multipli. Nella tabella che segue è riportata una breve sintesi dei risultati della revisione.

Allora cosa fare?

Alla luce dei risultati sopradescritti si può desumere che gli interventi a componente multipla che si richiamano a CW sono per lo più capaci di ridurre le prestazioni a basso valore clinico, anche se la generalizzabilità dei risultati è limitata dal fatto che tutti i progetti sono stati realizzati nel contesto sanitario statunitense. Va segnalato inoltre che i dati indicano in quale percentuale i vari interventi sono in grado di ottenere risultati favorevoli, ma non riportano il valore dell’efficacia dei singoli progetti. In altre parole, un intervento potrebbe essere efficace perché il 10% o l’80% dei partecipanti modifica il proprio comportamento prescrittivo nel senso desiderato. Entrambi gli interventi si possono considerare efficaci, ma è evidente che le ricadute pratiche sono alquanto differenti.

Abbiamo visto che i progetti di miglioramento più efficaci agiscono contemporaneamente su più fronti: organizzativo, educativo, normativo. Ciò per il fatto che l’erogazione di prestazioni di basso valore clinico è influenzata da una miriade di variabili interdipendenti che agiscono su più fronti e che sono l’espressione dell’ambiente organizzativo e sociale di riferimento. È per questo motivo che per affrontare questo fenomeno è necessario intraprendere iniziative di varia natura che usano diversi strumenti e che coinvolgono contemporaneamente amministratori, clinici, media, pazienti e cittadini.

Insomma, anche se ulteriori ricerche sono sempre utili, la revisione di Cliff sembra confermare che le energie dedicate alla diffusione di CW non sono sprecate e che gli amministratori dovrebbero prendere in seria considerazione l’opportunità di migliorare la qualità delle cure incoraggiando i professionisti a muoversi in questa direzione e adottando interventi che si richiamano esplicitamente agli obiettivi e alle liste top five di CW. Certo, si tratta di un percorso complesso su cui agiscono enormi interessi economici. Un percorso difficile che implica profondi cambiamenti culturali e soprattutto la consapevolezza che per riconquistare la fiducia dei pazienti bisogna coinvolgerli nelle scelte mediante l’ascolto, il dialogo e la personalizzazione delle cure. Un percorso tortuoso, sicuramente impegnativo, ma certamente non inutile.

Antonio Bonaldi, past president di SM. Bergamo, 22 agosto 2022

1. Choosing Wisely, an initiative of the ABIM Foundation: https://www.choosingwisely.org

2. Choosing Wisely Italy, Fare di più non significa fare meglio, un’iniziativa di Slow Medicine: https://choosingwiselyitaly.org

3. Rourke EJ. Ten years of Choosing Wisely to reduce low-value care. N Engl J Med 2022;386:1293-5

4. Cliff BQ, Avanceña ALV, Hirth RA, Lee SD. The impact of Choosing Wisely interventions on low-value medical services: a systematic review. Milbank Q 2021;99:1024-58

5. BMJ Evidence Center. Clinical Evidence Hanbook 2012

6. Organisation for Economic Co-operation and Development. Tackling wasteful spending on Health. Jan 2017. www.oecd.org/health/tackling-wasteful-spending-on-health-9789264266414-en.htm

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