I rapporti “invisibili” tra infermieri professionali e industria

Il problema del conflitto di interessi (conflict of interest, da ora COI) è un tema di cui si parla sempre più spesso. In alcuni paesi la legislazione ha già tentato di affrontarlo: negli USA, ad esempio, esiste il Sunshine Act, una norma che prevede la dichiarazione obbligatoria e la pubblicazione di qualsiasi forma di finanziamento ai medici sopra i 10 $, quindi non solo pagamenti in denaro, ma anche regali, viaggi, iscrizioni a corsi di formazione, pagamenti per relazioni, ecc. Nonostante si discuta sui limiti di questa norma, essa rappresenta senz’altro un primo elemento verso una totale trasparenza, il primo passo per affrontare il COI.

 

Una delle critiche che è stata sollevata più volte è che l’obbligo di dichiarazione riguarda solo i medici, trascurando le professioni sanitarie che prescrivono farmaci o dispositivi medici. Nel mondo anglosassone, è infatti diffusa la figura del nurse practitioner, infermiere che, seppur con limiti che cambiano a seconda degli Stati, può prescrivere anche medicinali[1]. Si parla da tempo di includere questa figura nel Sunshine Act, essendo a tutti gli effetti un obiettivo sensibile agli occhi delle industrie farmaceutiche. Ma lo studio di Grundy va giustamente oltre: non solo gli infermieri prescrittori dovrebbero essere equiparati ai medici per ciò che riguarda le dichiarazioni sul COI, ma anche gli infermieri “non prescrittori” sono coinvolti pienamente in questo problema.(1)

 

Molto attentamente e grazie al vecchio assunto molto diffuso per cui il problema del COI riguarda i medici e solamente loro, le industrie hanno messo nel mirino da tempo gli infermieri che apparentemente non hanno possibilità prescrittiva; contrariamente a quanto si sostiene, gli infermieri influenzano le scelte dei medici (lavorando al loro fianco), degli ospedali (fanno parte dei comitati di valutazioni e nelle gare di appalto, fanno richieste esplicite circa dispositivi e materiale sanitario, sollevano critiche e suggeriscono acquisti), e le scelte dei pazienti. Questo gruppo di operatori è passato e passa indisturbato “sotto i radar” del COI; un indicatore è la scarsità della letteratura (completamente assente in ambito italiano) e l’assenza di qualsiasi riferimento in ambito formativo e normativo[2].

 

Lo studio ha interessato 4 ospedali (altri 4 hanno rifiutato di partecipare all’indagine, in quanto il problema “non esiste”) ed ha riguardato un campione di comodo di 72 persone (56 infermieri) tra cui personale amministrativo, infermieri clinici, infermieri educatori, capo sala e personale dedicato all’organizzazione. La scelta delle persone è stata fatta in base alla volontà nella partecipazione. La ricerca qualitativa si è svolta con interviste, focus group e la somministrazione di questionari.

 

Tutti gli infermieri hanno dichiarato di aver avuto relazioni con i rappresentanti dell’industria medica. Gli incontri con i rappresentanti, che si erano verificati in media di 13 volte nel corso dell’anno precedente la ricerca, sono stati la forma più comune di interazione. Inoltre, gli infermieri hanno riferito la partecipazione a pranzi sponsorizzati, cene o eventi (39/56), offerte di doni (40/56) o di campioni (34/56), l’offerta di un viaggio o il pagamento per la partecipazione a ricerche di mercato, la richiesta di essere relatori, o come consulenti (15 di 56). Gli infermieri riferiscono di avere maggiori rapporti con il settore dei dispositivi medici (47/56), ma anche con la farmaceutica (31/56), le tecnologie sanitarie (12/56), e il latte artificiale (2/56).

 

Un quarto degli infermieri (14/56) sottolinea di non aver mai discusso del problema del COI prima di questa ricerca e non si era posto il problema sui possibili meccanismi di contrasto. La maggior parte degli infermieri (33/56) ha riconosciuto i benefici di lavorare con i rappresentanti e più di un quarto (16/56) ha osservato che sarebbe impossibile il loro lavoro senza il sostegno delle industrie. Per esempio, gli infermieri che hanno un ruolo come educatori coordinano la formazione sul campo con i rappresentanti sui dispositivi che si acquistano[3]; gli infermieri dirigenti hanno fatto affidamento sulle indicazioni dei rappresentanti nella selezione per l’acquisto di nuovi prodotti, e gli infermieri clinici lavorano a fianco di rappresentanti durante l’attività quotidiana, come durante un intervento chirurgico.

 

Tuttavia, molti infermieri (39/56) hanno riportato dubbi sui rapporti con i rappresentanti e sulle loro tecniche di marketing: dalle interviste si ricavano diversi problemi: la necessità che i rappresentanti rispettino le politiche dell’ospedale, il passaggio di informazioni distorte, l’introduzione di dispositivi non approvati, la mancanza di responsabilità per i guasti ai dispostivi e il pericolo alla sicurezza dei pazienti e alla loro privacy.

 

Nessuno degli ospedali che hanno accettato di partecipare all’indagine ha adottato politiche interne che orientino o contrastino il problema del COI anche quando l’intervento del rappresentante è stato ritenuto necessario: 25/56 infermieri hanno descritto i confini opachi tra il servizio di formazione del service e il marketing. La formazione post vendita è infatti uno degli eventi più a rischio di COI: gli infermieri percepiscono che i rappresentanti abbiano un mandato dall’ospedale e che subiscano già il controllo dell’ospedale, mentre così non è. Questi momenti “formativi” diventano per i rappresentanti un momento per ampliare le indicazioni d’uso dei prodotti e per proporre nuovi dispositivi.

 

Cosa fare? Il COI in ambito infermieristico è spesso negato, sia dagli operatori stessi che dalle amministrazioni sanitarie, che ritengono indispensabili i rapporti con il mondo dell’industria medica; il lavoro degli infermieri è (erroneamente) spesso poco valutato e stimato e di conseguenza anche i rapporti che essi intessono con i rappresentanti non vengono valutati nelle loro giuste conseguenze. Occorre dare dignità e riconoscere l’importanza del lavoro; una cornice normativa è necessaria per la gestione delle relazioni tra i rappresentanti e gli infermieri, definendo ambiti e limiti ben precisi: piccoli esempi possono essere l’obbligo di un badge che identifichi il rappresentante, limitare l’accesso fisico ad alcuni ambienti, evitare la relazione diretta col paziente quando non indispensabile, adottare un codice etico delle relazioni con le industrie, non adottare tecniche di marketing durante la formazione post vendita, ecc.

 

Un altro elemento critico è la mancanza di consapevolezza dell’infermiere. Il tema del COI è assente nei corsi di formazione di base e di etica, assente nei codici deontologici e negli eventi formativi, assente nelle associazioni professionali e scientifiche, anche perché esse sono realtà che hanno interessi con le industrie. Una professione che non è in grado di riconoscere questo rischio compromette gravemente il suo mandato fondamentale con il paziente. Anche le aziende sanitarie sottostimano questo problema e sono in grave ritardo nella produzione di politiche aziendali, incorrendo spesso in conseguenze negative come l’aumento dei costi dovuto alle richieste nell’introduzione di nuovi dispositivi. I rappresentanti dovrebbero essere prepararti a gestire correttamente le relazioni con gli operatori, separando e distinguendo ciò che è vendita dall’ assistenza e dalla formazione su nuovi prodotti. Ciò spesso non è possibile in quanto il loro stipendio non è fisso, ma varia in percentuale alle vendite e quindi sono ovviamente interessati ad aumentare le vendite. Gli ospedali dovrebbero garantirsi che al loro interno accedono solo rappresentanti stipendiati con uno stipendio fisso e non pagati a percentuale.

 

Infine, occorre sfatare l’idea che il rapporto tra marketing e infermieri sia irrilevante; gli amministratori ospedalieri devono riconoscere e sostenere il lavoro degli infermieri con l’industria. Tale lavoro che avviene attraverso e dopo l’acquisto di un dispositivo o la partecipazione a comitati di valutazione dovrebbero essere sostenuti con politiche e strumenti per individuare e gestire il conflitto di interessi, fornire supporto indipendente basato sulle prove di efficacia e su come affrontare i processi decisionali. Ad esempio, gli ospedali potrebbe stabilire al loro interno dei centri di valutazione sui prodotti o sui dispositivi in modo che gli infermieri possano condividere la loro esperienza con gli utenti finali e valutare i prodotti in modo indipendente senza essere sottoposti all’influenza dei rappresentanti. Interagire con l’industria medica è una realtà per la pratica quotidiana degli infermieri negli ospedali. Ciò dovrebbe essere visibile ed esplicitamente identificato nella descrizione del loro lavoro, dovrebbe essere parte della loro formazione e dell’orientamento personale e dovrebbe essere regolarmente sostenuto attraverso la formazione continua che ha come obiettivo gli aspetti etici.

 

Traduzione, adattamento e sintesi di Alberto Apostoli

 

1. Grundy Q, Bero LA, Malone RE. Marketing and the most trusted profession: the invisible interactions between registered nurses and industry. Ann Intern Med 2016 Apr 5. doi: 10.7326/M15-2522.



[1] In ambito anglosassone sono conosciuti come nurse practitioner e hanno la possibilità di fare alcune prescrizioni (es farmaci ripetibili, dispositivi medici, ecc). Da anni si parla di estendere la prescrivibilità dei farmaci e sono finiti chiaramente nel mirino delle industrie. In Italia gli infermieri non possono prescrivere, ma è indubbia la loro influenza sugli assistiti e il loro ruolo nell’orientare le loro scelte.

[2] Nell’attuale Codice Deontologico dell’infermiere manca un riferimento al conflitto di interesse.

[3] Generalmente i contratti di service o l’acquisto di nuovi dispositivi prevede un periodi di formazione fornito dal produttore o dal distributore.